Dazi, incertezza: declino di una valuta dominante?

Pubblicato da Veronica Campostrini. 23 Luglio 2025.

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Con l’inizio del secondo mandato presidenziale di Donald Trump, l’America ha imboccato con decisione un nuovo sentiero protezionista. Se alla fine del XVIII secolo il protezionismo statunitense serviva a sostenere l’industria nascente, oggi Trump lo utilizza per tentare un’inversione di tendenza rompendo in maniera netta con i principi e le regole del multilateralismo.

Ma il nuovo volto della politica commerciale americana non si riflette solo nei flussi di scambio: ha scosso anche la fiducia nella valuta statunitense. Da gennaio 2025, con il reinsediamento di Trump alla Casa Bianca, il dollaro ha infatti iniziato un persistente declino. Un trend acuito ad aprile con l’introduzione di una nuova ondata di dazi generalizzati che ha spinto l’euro verso quota 1.18 USD. Un segnale chiaro: il dollaro sta perdendo terreno, e con esso parte del suo status internazionale.



Fonte: ExportPlanning


L’incertezza come leva di governo

Durante il primo mandato, Trump utilizzò i dazi in modo strategico, con una direzionalità che i mercati riuscivano a leggere. Oggi, la politica commerciale americana somiglia più a un campo minato che a una strategia strutturata. Proclami improvvisi, smentite contraddittorie e misure incoerenti hanno generato un'impennata dell’Indice di Trade Policy Uncertainty, che ha toccato nuovi massimi storici, superando di gran lunga i picchi raggiunti nel periodo Brexit o durante il conflitto tariffario con la Cina.



Fonte: ExportPlanning


Questa incertezza, un tempo episodica, è ora diventata sistemica. E può intaccare direttamente la credibilità del dollaro come bene rifugio. Durante la recente crisi iraniana, la reazione della valuta statunitense è stata modesta, segno che gli investitori non si affidano più automaticamente al biglietto verde come scudo contro la volatilità.

Lo status di “valuta rifugio” barcolla

Tradizionalmente considerato l’asset sicuro per eccellenza — grazie alla profondità dei mercati finanziari USA, alla sua liquidità e alla centralità economica americana — oggi il dollaro mostra alcune crepe. Sempre più investitori internazionali guardano agli Stati Uniti non come argine alla crisi, ma come fattore scatenante di nuove instabilità.

Nonostante l’intervento della Federal Reserve e la resilienza dell’economia, le riserve in dollari nei portafogli delle banche centrali hanno iniziato a calare: secondo i dati del FMI, la quota delle riserve mondiali denominate in dollari è scesa dal 57.79% (IV trim. 2024) al 57.74% nel I trimestre 2025. Di contro, l’euro è salito al 20.06%. Un cambiamento modesto, ma simbolico.

Una tenuta economica che maschera fragilità

Paradossalmente, l’economia americana tiene. Dopo una crescita del +2.8% nel 2024, il PIL nel primo semestre 2025 si è mosso a un ritmo rallentato, ma ancora positivo: secondo la stima St. Louis Fed Economic News Index: Real GDP Nowcast, il secondo trimestre potrebbe chiudersi con un +1.6% annualizzato. Tuttavia, questa crescita è sostenuta da fattori transitori.

Nel primo trimestre, le imprese hanno corso ad accumulare scorte in previsione dei dazi. Nel secondo, come mostrano i dati ExportPlanning, si osserva un brusco calo delle importazioni, segno che l’instabilità tariffaria sta frenando i flussi commerciali. Inoltre, l’inflazione ha ripreso a salire, passando dal +2.3% di aprile al +2.7% di giugno. Le aspettative inflazionistiche aumentano, spingendo consumatori e aziende ad anticipare gli acquisti — un comportamento che potrebbe rapidamente esaurirsi.



Fonte: ExportPlanning


Protezionismo asimmetrico e il rischio deflazionistico globale

Il protezionismo americano non si esaurisce all’interno dei confini statunitensi. Le barriere tariffarie imposte da Washington generano effetti a catena: nei Paesi esportatori, l’accesso limitato al mercato USA produce un eccesso di offerta che si riversa su altri mercati, alimentando dinamiche deflazionistiche a livello globale. Per l’Eurozona, il tempismo non potrebbe essere peggiore. La combinazione di dazi e deprezzamento del dollaro penalizza le esportazioni europee, riducendone margini e competitività.

Secondo le stime di ExportPlanning, le esportazioni dell’Unione Europea verso gli Stati Uniti si mantengono ancora in territorio positivo nel secondo trimestre del 2025. Il dato è sostenuto artificialmente dall'accumulo di scorte, soprattutto in settori, come quello del pharma, ancora esenti da dazi, ma per i quali ci si attende un intervento. Nel prossimo futuro, in assenza di un’intesa concreta nei negoziati in corso tra Bruxelles e Washington, la domanda americana per beni europei è quindi attesa subire un significativo ridimensionamento.

Come suggerisce la storia recente, fasi di marcato indebolimento del dollaro hanno avuto luogo in momenti di crisi finanziarie di rilievo, che si sono riflesse sull’economia reale americana. Tre episodi sono particolarmente indicativi.

Il primo è lo scoppio della bolla Dot-com all’inizio degli anni Duemila, che ha innescato la prima fase di deprezzamento del dollaro di inizio secolo, che si è tradotta in una flessione del 22% in termini reali delle importazioni dall’Europa.

Il secondo è la crisi dei mutui sub-prime, esplosa sul fronte finanziario tra il 2006 e il 2007, durante la quale le importazioni statunitensi dalla UE hanno subito una contrazione del 5% già nei anni precedenti alla fase più acuta della Grande Recessione del 2009.

Il terzo caso, più recente, non si lega a crisi finanziarie rilevanti, ma alla seconda metà del 2016, con la campagna elettorale che portò all’elezione di Donald Trump nel suo primo mandato. Anche in quell’occasione, il dollaro aveva mostrato un deciso trend di deprezzamento nei confronti dell'euro - presumibilmente legato all’incertezza politica e al cambio di rotta nelle politiche commerciali- che si tradusse in una flessione delle importazioni USA complessive e dalla UE.



Fonte: ExportPlanning


Guardando al presente, l’elemento di discontinuità è rappresentato proprio dall’intensità e dalla persistenza dell’attuale fase di deprezzamento del dollaro. Se tale tendenza dovesse proseguire, affiancata da una politica commerciale ostile, l’impatto sulle esportazioni europee potrebbe essere considerevole. Diversamente dal primo mandato Trump, l’incertezza odierna è più sistemica, su livelli largamente superiori al primo mandato.

Per l’Europa, ciò implica non solo una sfida economica, ma anche la necessità di ridefinire la propria strategia commerciale in un contesto globale meno aperto e più instabile.

Politiche monetarie divergenti, fiducia divergente

Anche le politiche monetarie riflettono la tensione transatlantica. Mentre la BCE ha già rallentato il ciclo di tagli, la Federal Reserve resta cauta, stretta tra la pressione politica per abbassare i tassi e la necessità di contenere l’inflazione. Trump spinge per una politica monetaria espansiva, ma l’incertezza minaccia di azzerarne gli effetti.
Il differenziale dei tassi, che dovrebbe sostenere il dollaro, è invece compensato dal calo di fiducia negli asset americani. La pressione al ribasso sul dollaro non è più solo ciclica: è diventata strutturale.

Conclusione: centralità sotto osservazione

Il dollaro resta al centro del sistema finanziario globale. È ancora la valuta più scambiata e utilizzata per la fatturazione internazionale. Ma segnali crescenti — riserve in calo, volatilità nei mercati valutari, perdita di appeal come asset rifugio — suggeriscono che quella centralità è oggi meno solida.
Non esistono ancora alternative credibili al dollaro, ma il suo status non è più incontestato. Il suo futuro dipenderà dalla coerenza — o incoerenza — della politica americana, dall’evoluzione delle relazioni geopolitiche e dalla fiducia che i mercati riporranno, o meno, nella capacità di Washington di guidare, piuttosto che destabilizzare, l’economia globale.

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